mercoledì 8 gennaio 2014

Steve Mason - Monkey Minds in the Devil's Time



La Beta Band è stata forse la più grande band incompiuta proveniente dal Regno Unito. Quattro musicisti dal talento sopraffino, capaci di influenzare decine di gruppi (chi ha detto Blur?), bizzarri quanto basta per mandare alle ortiche tutte le aspettative che in loro erano riposte dopo la pubblicazione dei primi 3 seminali EP tra il 1997 e il 1998. Infatti, dopo altrettanti lavori su lunga distanza, il primo rinnegato, il secondo giudicato incompleto e il terzo a dire il vero piuttosto deboluccio, nel 2004 arriva l’inevitabile scioglimento che porta il former member Steve Mason dentro un tunnel depressivo dal quale oggi sembra uscito definitivamente con la pubblicazione del nuovo lavoro solista: Monkey Minds in the Devil’s Time
Non è stato a lungo con le mani in mano l’ex cantante dei Bandidos, avendo pubblicato già diversi album, prima a nome King Bisquit Time, poi come Black Affair e infine utilizzando il suo nome per un album, Boys Outside, vecchio di tre anni, che lo ha ricongiunto, finalmente in prima persona, con il pop folk. Ma è con Monkey Minds... che Mason si riporta sui livelli di un tempo, sfoderando un concept album dove l’eclettismo torna a braccetto con la contaminazione figlia della Beta Band. 

Il pretesto viene dai disordini inglesi del 2011 in cui Mason si è trovato coinvolto con la propria compagna, una rivolta che lui condivide nella sostanza ma non nella forma. Evoluzioni sociali che portano il singer scozzese a confrontarsi con i propri cambiamenti in una sorta di percorso terapeutico che si snoda in venti tracce, di cui solo nove sono canzoni vere e proprie, che esplicano il Mason-pensiero di una società troppo poco consapevole di come il mondo stia cambiando in peggio. E così ci si imbatte nel gospel in stile Spiritualized di Lonely, nell’elegante e americana Oh My Lord o nel manifesto funky di Fight Them Back, in un vorticoso cambio di scene che ci porta ad apprezzare pure l’intermezzo hip-hop di More Money More Fire che fa da intro alla bellissima Fire! un ipotetico brano estratto da un musical politicizzato.
Le altre undici composizioni costituiscono il collante tra i vari episodi e rimandano a quel discorso di sperimentazione interrotto dieci anni fa, realizzate in uno studio casalingo con segmenti che vanno da citazioni dell’Inferno di Dante (vedi anche la copertina) a telecronache automobilistiche in portoghese o sampler con discorsi di Tony Blair, da spezzoni di vecchie incisioni con la Beta Band fino a melodie che si ripetono in brani diversi come a dare un senso di circolarità all’opera.
Monkey Minds in the Devil’s Time, il titolo, si riferisce ad un termine buddista che indica un cervello facilmente distraibile, una mente estremamente labile, in un epoca in cui i media hanno la loro responsabilità nella (non) crescita delle persone. Mason ne è consapevole e lo grida al mondo con un album che rappresenta il suo credo, l’apice autobiografico della sua carriera, il tassello mancante dopo quei tre famosi EP di ciò che poteva essere e non è stato.




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